Una memoria condivisa senza responsabilità politica?
Sergio Ramelli e la destra post-fascista
“Tutti dobbiamo fare i conti con la vicenda di Sergio Ramelli (...) nel tentativo di ricucire una ferita profonda che deve accomunare tutte le vittime innocenti dell'odio e della violenza politica”. Sono le parole di Giorgia Meloni in ricordo del giovane militante missino a cinquant’anni dalla sua morte.
Ogni Paese ha un suo momento fondante, un periodo o un episodio che viene posto come pietra miliare dell’identità di quella comunità. A volte quel momento viene imposto da altre nazioni, come la Germania contemporanea che nasce dalle ceneri del nazismo e dalla sconfitta della Seconda guerra mondiale.
L’Italia nasce dalla resistenza antifascista, l’unico momento di dignità dopo un ventennio di regime fascista e della guerra al fianco di Hitler.
Il Portogallo dalla rivoluzione dei garofani, i Paesi dell’Est Europa dalla dichiarazione di indipendenza dopo la caduta del muro di Berlino e così via.
L’identità è qualcosa di mutevole che viene riscritta quando i rapporti di forza cambiano e oggi siamo in uno di quei momenti: il primo partito per consensi in Italia rivendica l’eredità del Movimento Sociale Italiano, nel suo simbolo brucia ancora la fiamma tricolore che rappresenta, parole di donna Assunta Almirante, “lo spirito di Benito Mussolini” e che raccoglie l’eredità del Movimento Sociale Italiano e quello che ha rappresentato dopo la caduta del fascismo.
La Resistenza antifascista non può essere un suo momento fondante così come non può esserlo il manifesto di Ventotene, scritto da antifascisti confinati sull’isola laziale dal fascismo.
Per questo da anni assistiamo ad una campagna per una memoria storica che parta dall’odio politico degli anni ‘60 e ‘70 del ‘900 e il nome di Sergio Ramelli diventa fondamentale quella ricucitura di cui parla Meloni.
A parte i 123 giorni del governo Tambroni del 1960, in tutta la prima repubblica attorno al MSI c’è stato un argine che ha isolato il movimento reduce del fascismo e che aveva come capo politico il redattore del giornale “La difesa della razza”. Un cordone sanitario che ha retto per decenni in Italia ma anche in Francia con il Front National di Le Pen e con in Germania con i post-nazisti di AFD.
Oggi che la storia sembra ripetersi e che i partiti che si richiamano al fascismo e al nazismo sono tra i più votati in Europa, serve una legittimazione storica che vada oltre il consenso politico e che ponga le basi di una memoria che possa includere chi si è trovato dalla parte sbagliata della storia.
L’equiparazione che propone Meloni di “tutte le vittime innocenti dell'odio e della violenza politica" ha come base quella di un calderone dove mettere tutti, senza distinzione di pensiero e senza responsabilità politiche, per trovare quella legittimazione storica in questo Paese, non più quindi emarginati dalla pregiudiziale antifascita che ha accompagnato la Prima Repubblica ma accomunati agli altri movimenti politici in nome dell’odio che hanno subito.
Nel 1996 il Movimento Sociale Italiano non esisteva più, Gianfranco Fini lo aveva trasformato un anno prima in Alleanza Nazionale e Silvio Berlusconi aveva aperto le porte del governo ai post fascisti. Ma la legittimazione storica abbiamo detto è qualcosa di diverso dal consenso politico e proprio nel 1996, dopo la caduta del primo governo Berlusconi, è arrivato un assist imprevisto per “i ragazzi di Salò” da parte di Luciano Violante, dirigente del Partito dei Democratici di Sinistra ed ex magistrato, eletto Presidente della Camera dei Deputati. Violanta nel discorso di insediamento disse: “Mi chiedo se l’Italia di oggi non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri. Non perché avessero ragione, o perché bisogna sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le due parti. Bisogna sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e della libertà. Questo sforzo, a distanza di mezzo secolo, aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro Paese, a costruire la Liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce per il semplice e fondamentale fatto di vivere in questo Paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo più prospero e più sereno. Dopo, poi, all’interno di quel sistema, comunemente condiviso, ci potranno essere tutte le legittime distinzioni e contrapposizioni”.
L’apertura di Violante è il momento della rottura dell’argine che si era costruito attorno a quella storia politica che aveva segnato il ventennio dal 1922 in poi. Ma Fini, Tremaglia, La Russa e gli altri non hanno insistito sui “ragazzi di Salò”, hanno spostato la loro campagna sui morti degli anni di piombo, dimenticando le responsabilità storiche che il loro partito aveva avuto nella storia dello stragismo e dell’eversione nera.
Perché se è vero che di giovani morti ce ne sono stati troppi su entrambi i fronti e che questa resta davvero una ferita aperta, quello che li differenzia è il ruolo politico che hanno giocato i partiti a loro vicini.
Il PCI di Luigi Longo prima e Enrico Berlinguer dopo non solo prendevano le distanze dai gruppi extraparlamentari comunisti ma invitavano a segnalare i militanti che non rinnovavano la tessere e che potenzialmente potevano essere passati ai gruppi che praticavano la lotta armata in quegli anni. Il caso più eclatante è il “processo 7 aprile” contro l’Autonomia Operaia, nel quale il PCI si schierò contro gli autonomi e a sostegno del PM Calogero che con il suo “teorema” collegava alcuni professori universitari alla lotta armata.
Dall’altra parte invece non solo non si denunciava ma non si rompevano nemmeno i ponti con l’eversione nera che in Italia ha portato le stragi nelle piazze (Fontana e La Loggia), nelle stazioni ferroviarie (Bologna), nei treni (Italicus), colpendo nel mucchio e cercando, insieme ai servizi segreti e ai massoni di Licio Gelli, di creare le basi per un colpo di Stato militare, come quello avvenuto in Grecia.
Nel 1970 l’ex presidente del Movimento Sociale Italiano ed ex comandante della X Mas, Junio Valerio Borghese, che nel frattempo aveva fondato il Fronte Nazionale, il colpo di Stato lo ha tentato davvero. Riccardo Cerullo, dirigente della giovanile del partito, racconta: “Gli emissari di Borghese giravano tutta l’Italia per convincere i nostri che l’ora X era vicina e che bisognava organizzarsi. Noi eravamo apertamente critici ma Almirante preferì una linea attendista e, senza farsi coinvolgere, rimase ad aspettare gli eventi”.
In quegli anni fuori dal Movimento Sociale Italiano c’era anche Pino Rauti, storico leader fascista e frequentatore del Centro Studi Ordine Nuovo, uno dei pilastri dell’eversione nera in Italia che in seguito però è “tornato a casa” seguendo il partito fino alla svolta di Fiuggi del 1995. Oggi sua figlia Isabella Rauti è senatrice di Fratelli d’Italia e sottosegretaria alla difesa del governo Meloni.
Su cosa si basa la memoria condivisa che la destra oggi chiede?
I giovani morti sugli opposti schieramenti e un generico “odio” bastano per sanare le responsabilità storiche della destra post-fascista italiana e i suoi legami con lo stragismo?
Non è una via intitolata a Sergio Ramelli il problema, è spostare dalla Resistenza antifascista alle vittime dell’odio politico senza assumersi le responsabilità della propria storia.
Che pezzo bellissimo!
Quante informazioni, quante riflessioni e quanta storia d’Italia che non si leggono e non si raccontano più . Forse le persone fossero messe più a conoscenza di tutti questi collegamenti che abbiamo subito e ancora subiamo, forse ci sarebbe qualche possibilità di più coscienza e umanità
C’è un equivoco grande come una casa e che contribuisce a questa confusione sulla memoria condivisa.
L' Italia non nasce dalla Resistenza, ma grazie(è proprio il caso di dirlo) ad una sonora e sanguinosa sconfitta. La Resistenza è stata una meritoria parentesi in un contesto molto più grande. Siamo tali e quali alla Germania, ma c'è la volgimso raccontare diversa.
Questo desiderio di usare la Resistenza come fondamento dell' Italia repubblicana ha, tra le altre cose, portato ad identificare “antifascista” con “democratico”. Identificazione che non è necessariamente vera.
Il primo passo per uscire da queste continue polemiche è sostituire “antifascismo” con “democrstico”.